martedì 20 gennaio 2009

Moto Guzzi Daytona















Nelle foto partendo dal basso:
1) Uno schizzo dello schema tecnico del bicilindrico made in Mandello del Lario.
2) La moto del Dr. John "svestita" di tutta la carrozzeria. Si nota benissimo la ciclistica rifatta, rispetto alla Le Mans (dalla quale i primi esemplari derivavano).
3 e 4) La moto del Dr. John ai box dopo il BOTT di Monza del 1989.

La storia della Moto Guzzi parla di successi sportivi, di mezzi altamente competitivi e di motociclette dal fascino intramontabile. Il problema della Casa di Mandello del Lario é stato che dopo il suo ritiro ufficiale dalle corse, avvenuto a metà degli anni cinquanta, non ha più creduto con convinzione al lustro che le avrebbero reso le competizioni. In Guzzi evidentemente non si è ragionato neppure sul fatto che il know-how derivante dalle gare, avrebbe poi portato dei benefici direttamente alle moto di produzione. Ancora nel corso dei primi anni ’80, le Guzzi erano moto ammirate e sognate nelle vetrine dei concessionari, mentre l’invasione nipponica si faceva sempre più prepotente nel nostro Paese. La Le Mans era una sportiva blasonata che occupava un posto di rilievo nel cuore degli appassionati. La sua ciclistica era però migliorabile ed il motore garantiva prestazioni che ormai non erano più così esaltanti come al momento del suo lancio. L’immagine sportiva della Moto Guzzi stava quindi sbiadendo velocemente, incalzata da una concorrenza agguerrita e pronta ad investire denaro nelle competizioni, pur di garantirsi visibilità da parte del grande pubblico. Il fascino dei grossi propulsori a quattro tempi applicati alle moto era infatti molto sentito dagli appassionati di motociclismo. Sebbene i GP fossero dominati da moto a due tempi, la F1 e le altre categorie come l’endurance e la BOTT stavano prendendo sempre più campo, con seguiti di pubblico fino ad allora inimmaginabili. Le Case inoltre avevano nei loro listini sempre meno modelli spinti dai propulsori a due tempi. Fu proprio in questo clima di “ritorno” all’amore per i propulsori a quattro tempi che vennero gettate le basi per il campionato Superbike, che nacque nel 1988. Mentre in Italia non si faceva nulla di concreto per correre ai ripari cercando in qualche maniera di fare tornare la Guzzi agli antichi fasti, dall’altra parte dell’oceano un dentista con le mani ormai irrimediabilmente sporche di grasso riusciva a mietere allori nei vari campionati AMA/CCS. John Wittner, “Dr John” per gli amici, faceva tutto in casa, con solo una piccola spinta da parte della Moto Guzzi americana (evidentemente più lungimirante della “nostra”) e fu lui grazie al suo estro a dare il via all’ultimo progetto vincente del secolo, per la Casa di Mandello del Lario. La base di partenza, gettata dal dentista americano, si rilevò talmente valida, da essere utilizzata negli anni a venire come oltre che nelle competizioni, anche per i modelli di produzione. Ciò di cui le sportive italiane della vecchia guardia difettavano erano anzitutto le prestazioni. Così come quelli marcati Ducati, i bicilindrici Guzzi iniziavano a sentire il peso del tempo (incalzati come erano dai potenti e affidabili quattro cilindri nipponici). I propulsori lariani, rispetto ai concorrenti bolognesi, avevano l’aggravante di un peso maggiore e di un'architettura che non lasciava molto spazio all’aggiornamento (il buon Taglioni quando realizzò il motore Ducati Pantah guardò talmente avanti che i moderni Testastretta da oltre 150 Cv/litro ne condividono ancora la struttura). In ogni caso, sul piano prestazionale il bicilindrico raffreddato ad aria e due valvole non offriva grosse prospettive di sviluppo e questo probabilmente era uno dei problemi del team Wittner. Il medico statunitense però si adoperò da subito per apportare una grossa variazione alle motociclette realizzate su base Le Mans. Partì dalla ciclistica: accantonata la classica e obsoleta doppia culla che avvolgeva il motore, il geniale ex-dentista affidò il grosso del lavoro a una singola trave a sezione rettangolare disposta obliquamente dentro alla V dei cilindri, collegata ai bracci posteriori tramite due piastre in lega leggera imbullonate a un corto tubo circolare trasversale. Il forcellone era a doppio braccio di tipo Cantilever con un singolo ammortizzatore, mentre la trasmissione era lasciata indipendente in modo da eliminare gli effetti della coppia di reazione grazie a un albero che correva parallelo al forcellone (nulla di nuovo oggi, viste le moderne evoluzioni dei bicilindrici a cardano). Il telaio, così strutturato, permetteva la centralizzazione delle masse, oltre ad irrigidire l’intera struttura. Il robusto propulsore completava l’opera, fungendo da elemento stressato. In questa maniera vennero risolti i grossi limiti dei telai tradizionali, conferendo alla moto maggiore rigidezza, massima accessibilità meccanica, migliore distribuzione dei pesi, oltre alla possibilità di poter montare il gruppo propulsore disassato rispetto alla mezzeria della moto così da poter installare cerchi e pneumatici di sezione maggiorata adeguati all’uso agonistico. La struttura del bicilindrico era stata infatti definita in periodi in cui le potenze in gioco erano assai inferiori a quelle espresse dalle successive elaborazioni e in cui, conseguentemente, le gommature previste erano di sezione decisamente ridotta. La trasmissione ad albero, e la particolare disposizione degli organi sul bicilindrico lariano, non avrebbero permesso di risolvere il problema, a meno di ricorrere a un simile stratagemma. L’assenza di elementi strutturali al di sopra del propulsore, inoltre, permise di collocare quest’ultimo il più in alto possibile senza alzare sensibilmente il baricentro dato che il telaio si sviluppava all’interno della V. Ciò per ottenere la maggior luce a terra possibile in vista dei sempre maggiori angoli di piega ottenibili in gara con le moderne coperture. La motocicletta sviluppata da Wittner era molto più che una special: si trattava chiaramente del futuro della Moto Guzzi ossia la strada da seguire per rilanciare in campo sportivo e commerciale il blasone di Mandello del Lario. Fu per questo che la fabbrica in prima persona si interessò al progetto grazie allo stesso italo-argentino Alejandro de Tomaso, allora “gran capo” da quelle parti vicino al lago (capo che non sempre fu in grado di prendere le scelte migliori per la Casa). In questo caso però l’opportunità era evidente, alla luce degli enormi successi agonistici della moto americana. L’unico problema residuo per la moto del Dr. John era rappresentato da quello prestazionale. Come già riportato, infatti, i vecchi propulsori Le Mans necessitavano di elaborazioni piuttosto spinte per raggiungere prestazioni dignitose in gara (tra i 95 e i 120 Cv), ma a questo punto venivano a meno le dovute garanzie di affidabilità necessarie per la produzione di grande serie. La motocicletta doveva essere all’altezza delle concorrenti ed eventualmente fornire ulteriori margini di elaborazione in campo sportivo, anche perché la concorrenza era agguerrita e la ciclistica aveva tutto il potenziale per raggiungere grandi risultati. La strada da percorrere, mantenendo salda l’architettura classica dei grossi bicilindrici Guzzi, era quella dell’incremento del rendimento volumetrico del propulsore, principalmente attraverso l’adozione di una distribuzione plurivalvola e dell’iniezione elettronica. Le quattro valvole per cilindro avrebbero permesso di migliorare sensibilmente le prestazioni agli alti regimi, ammettendo il raggiungimento di valori di potenza elevati. Il problema principale era, allora, come conciliare la geometria del vecchio due valvole con le esigenze del nuovo quattro, dato che sarebbe stato assurdo mantenere il singolo albero a camme centrale con aste e bilancieri. L’Ingegner Todero, cui fu affidato l’oneroso compito della progettazione del nuovo propulsore, sviluppò dapprima un prototipo a doppio albero in testa: la soluzione più conveniente e immediata, che tuttavia mal si conciliava con i già notevoli ingombri trasversali del bicilindrico, il quale, in questo modo, cresceva in altezza elevando il baricentro dell’insieme. Per lasciare invariate le dimensioni complessive del gruppo propulsore, si ricorse allora a un sistema misto, complicato ma decisamente ingegnoso. I bilancieri e le aste dei vecchi motori rimasero, quasi a voler sottolineare la continuità col passato, ma ridotti ai minimi termini: i primi vennero chiaramente ridisegnati per azionare due valvole in più, mentre le aste divennero, nella sostanza, delle corte punterie. Infatti, gli assi a camme diventarono uno per ogni cilindro, posizionati “quasi” in testa, ovvero lateralmente alle valvole dentro la V dei cilindri, consentendo così di contenere l’altezza degli stessi. Tali alberi erano azionati da cinghie dentate secondo uno schema simile a quello definito da Taglioni per i motori Ducati, ovviamente però posizionate sul lato anteriore e alloggiate in due carter che rendevano immediatamente riconoscibile il propulsore rispetto a ogni creazione precedente. Quindi, la puleggia motrice delle due cinghie, onde contenere la lunghezza delle stesse e i problemi a questa connessi, era collegata all’albero motore con una cascata di ingranaggi, a chiudere la catena cinematica della distribuzione. Uno schema senza precedenti, che contemplava tre dei principali tipi di distribuzione comunemente utilizzati nella tecnica motoristica. La presenza delle cinghie e degli ingranaggi proponeva anche una maggiore facilità di manutenzione e registrazione, cosa sempre auspicabile su un motore sportivo. Sul fronte prestazionale, le piccole aste avevano un peso irrisorio, quindi trascurabile nel computo delle masse in moto alterno, anche agli alti regimi, consentendo di sfruttare le potenzialità delle 4 valvole e di raggiungere valori di potenza superiori. Le premesse erano ottime: un nuovo propulsore più potente e solo poco più pesante e ingombrante, senza bisogno di ulteriori modifiche alla meccanica. Fermo restando, infatti, che l’impostazione del motore doveva rimanere quella dei vecchi bicilindrici, la ricerca di migliori prestazioni avrebbe spinto verso l’adozione della trasmissione finale a catena. Tuttavia, anche Wittner, su tutte le sue realizzazioni, aveva sempre preferito mantenere l’originale complessa e pesante struttura ad albero cardanico. Apparentemente, questo poteva sembrare un controsenso su una moto sportiva, dato che la finale a catena offre maggior leggerezza, minor assorbimento di potenza insieme a un'estrema facilità e rapidità di manutenzione e nella variazione del rapporto finale (il che permette di adeguare il veicolo alle diverse condizioni di utilizzo e del circuito), ma il Dr. John aveva tutte le sue ragioni: anzitutto, i componenti originali erano qualitativamente validi e garantivano comunque una discreta affidabilità anche in pista, e poi egli aveva verificato come il rendimento di una tradizionale catena a rulli in presenza di elevata coppia motrice precipitasse sensibilmente dopo circa 30 minuti di utilizzo (andando a dissipare anche 15-20 cavalli), il che poteva essere tollerabile per gare brevi, ma era assolutamente inaccettabile per le gare di durata per cui l’ex dentista americano aveva progettato le sue moto. Altro capitolo, il sistema di scarico: Wittner aveva da sempre sostenuto che per fare andar forte una Guzzi bastava farla respirare meglio. In quest’ottica, la base delle sue preparazioni sportive era sempre stata l’abolizione del complesso di aspirazione e la revisione dello scarico, con particolare attenzione alla compensazione tra i due cilindri. Ecco perché, sin dai primi prototipi, si seguì lo schema delle moto da competizione, con particolare attenzione alla progettazione della scatola filtro, la cui presenza era obbligatoria sul futuro modello di grande serie. La genesi della Daytona era completata; iniziava la delicata fase dello sviluppo del prototipo sino alla presentazione del modello stradale definitivo, il cui ritardo sul mercato fu forse l’unica causa importante del tiepido successo decretato da parte del pubblico.

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